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Ogni crisi è un momento necessario per transitare dal passato al futuro: è il presente.

Le strutture politiche, economiche e sociali oscillano oggi pericolosamente. Lo “stato di crisi” è universale. Se da un lato infatti il dramma ecologico pone dei dubbi sulle reali possibilità di perseverare nell’ottica di un modello di “sviluppo” basato sulla crescita illimitata (del PIL, dei consumi, della produzione, del capitale), dall’altro il sistema globale della finanza e delle sue istituzioni fa riflettere sulle reali possibilità di controllo democratico dei processi in atto: quotidianamente il ruolo dello Stato viene scalzato da decisioni prese in ambiti ristretti, dominati dalle logiche dell’utilitarismo monetario e dell’opportunismo commerciale, che si riflettono  sulla vita, sui corpi, e nello spazio fisico delle città e dei territori.

Nella palese inadeguatezza dei modelli di riferimento,  siano essi politici,  economici o finanziari,  si manifesta il bisogno diffuso di nuove narrazioni e di nuovi linguaggi.

La riflessione sul sapere e la conoscenza, fattori centrali nei modelli di potere e di produzione odierni, rappresenta dunque uno dei punti cardine da cui ripartire. L’importanza che il controllo della trasmissione del pensiero assume nel mantenimento dello status quo e nella gestione della “sorveglianza” socio-spaziale, fa del pensiero stesso un elemento soggetto a dispositivi che lo strutturino meticolosamente, che ne inibiscano la libera circolazione e ne svalutino la funzione sociale e culturale, laddove per cultura si intende quel sapere libero e critico, capace sia di analizzare e comprendere a fondo, sia di sovvertire gli schemi dominanti.

Le varie riforme nel mondo della scuola e dell’università, insieme alla formazione permanente erogata dalle aziende, hanno concorso a definire ed implementare il fenomeno del long life learning: un processo di inflazione formativa che allontana dal mondo del lavoro, favorisce una condizione di precarietà diffusa e di sfruttamento che non educa a un sapere critico ed alla creatività. La ricerca è oggi indissolubilmente legata ai finanziamenti privati, quindi ai processi di produzione e all’accumulazione, che tendono a favorire lo sviluppo di poche discipline specifiche. In questo contesto la ricerca di base e le scienze umanistiche finiscono per essere fortemente svantaggiate, perché lo Stato, che dovrebbe garantire le risorse necessarie al loro sviluppo, taglia i fondi ad esse destinati, giustificando le sue scelte con la crisi.

L’ultra-specializzazione delle discipline e della ricerca ha fatto sì che si perdesse di vista l’obiettivo primario: l’evoluzione  dell’essere umano in quanto tale. Il razionalismo classico ha finito per ridurre ad una manciata di numeri i passaggi evolutivi dell’intelletto umano: ogni bene materiale o immateriale viene quantificato numericamente. La centralità del denaro nella gestione della vita quotidiana riduce oggi più che mai tutte le aspettative degli individui alla domanda: “Quanto?”. L’obiettivo della “qualità” è naufragato in una tempesta di cifre autoreferenziali.

Si avverte oggi l’urgenza di una riflessione trasversale che attraversi tutti i campi del sapere. Non è più possibile temporeggiare oltre marcando distinzioni “di genere” tra i campi della conoscenza: bisogna oltrepassare la scissione ultraspecialistica tra le varie discipline, per provare a ricomporre un ragionamento unitario che ridia senso all’agire umano. Allo stesso modo occorre garantire l’accesso ai saperi ed il coinvolgimento inclusivo di ogni cittadino come essere transnazionale, non più legato al concetto di popolo e di stato, ma a quello di Moltitudine.

In un mondo di persone in movimento, di mercificazione globale e di Stati che si dimostrano incapaci di garantire i diritti basilari persino alle loro popolazioni maggioritarie, la “sovranità nazionale” si riduce ad un slogan sempre più insostenibile. Nonostante ciò gli spazi principe d’azione della moltitudine e del conflitto rimangano quelli tradizionali delle città e dei territori, eppure la loro valenza si declina in nuove modalità.

La “moltitudo” infatti descrive una pluralità che esiste come tale sulla scena pubblica, nell’azione collettiva, nella cura degli affari comuni senza convergere necessariamente in un Uno, è la forma esistenziale e politica dei molti in quanto molti, è eterogeneità.

In quanto tale essa si manifesta all’interno della città non in maniera univoca, bensì generando quella che viene definita come “città delle differenze”, che si compone oggi di molteplici nazionalità, provenienze, soggettività, culture, tradizioni, religioni, linguaggi, saperi, agiografie, economie e tipi di consumi, età, generi, preferenze sessuali, etc.

Così, nel tessuto socio-spaziale della metropoli, il controllo delle condizioni da vita diventa un affare politico,  in cui l’autorità regola e gestisce la disciplina del corpo  strutturando le popolazioni attraverso molteplici dispositivi: barriere, recinzioni, telecamere e divieti limitano la generazione di spazi pubblici “spontanei”, negando le basi della libertà e della convivialità e favorendo invece l’espansione della “paura”.

E’ così che negli spazi caratterizzati da maggior conflitto, microcomunità in espansione e moltitudini in movimento si oppongono alla geografia del potere. Inserendosi in “immensità nascoste” esse cercano di dar vita a processi flessibili non regolamentati che tendono a trasformare lo spazio della mobilità e della circolazione in uno spazio di vita e di affermazione di nuovi soggetti, diritti e cittadinanze.

Dunque la città e il territorio sono i teatri delle crisi e le moltitudini, sono le attrici della rinascita urbana e globale, che si manifesta nella difesa, nella liberazione e nella fruizione comune dello spazio e dei diritti.

Oggi le pratiche insurgent – qualsiasi forma di resistenza dal basso che operi sottraendo spazio al potere e alla commercializzazione e finanziarizzazione del territorio – sono considerate errori sistemici temporanei da reprimere, mentre dovrebbero essere sostenute da politiche di welfare sociale e urbano, in grado di trasformarle in nuovi modelli di auto-organizzazione sociale e territoriale.

E’ dunque possibile all’interno delle istituzioni e delle gerarchie di potere esistenti sostenere una rinascita urbana e culturale o è necessario un nuovo processo costituente?